Coaching

14 Luglio 2022

 Berardo Berardi

Tempo di lettura: 18 mins

Coaching

1 Settembre 2022

 Berardo Berardi

Tempo di lettura: 18 mins

Un business coach, che sappia fare realmente il suo lavoro, svolge il suo compito in una situazione assolutamente dissociata, rispetto al suo cochee, nonché del duo ruolo, dell’azienda o dello studio professionale di quest’ultimo, così come dello scenario e del segmento di mercato, dove chi sta guidando, si muove. Il coach è avulso da tutto. Se svolge con competenza e capacità la propria professione, non è interessato minimamente agli aspetti di coinvolgimento.

Addirittura, spesso e volentieri, il coach non sa o, se sa, è per sommi capi, di cosa si occupa il suo coachee, in che business opera e in che segmento si muove il suo contesto di appartenenza. Non ne ha bisogno. Anzi, avere queste informazioni, non lo aiuterebbe e, in certi casi, potrebbe penalizzarlo addirittura, nel suo ruolo di guida.

E questo, per un motivo semplice. Chiunque sia il suo coachee, imprenditore, manager, professionista, persona ai vertici di un’azienda o di uno studio professionale o investito di un ruolo nell’organigramma, a qualsiasi livello, per il coach non cambia: il coach sa che ha a che fare con una persona, dotata di un cervello e, dunque, dotata degli stessi meccanismi di acquisizione dei dati dalla realtà, elaborazione degli stessi e scelte comportamentali conseguenti, di qualunque altra persona, al mondo. Dunque, sotto questo punto di vista, chi sia il suo coachee, non fa alcuna differenza.

Non fa differenza, semplicemente perché non cambieranno gli strumenti che metterà in campo, per esercitare la giusta guida. Sono altri, i fattori che cambiano, non certamente gli strumenti. E, tanto per capirci, gli strumenti sono sempre gli stessi: le domande. Nell’accezione più pura, del ruolo del coach, non ci sono altri strumenti.

Va detto che la questione è dibattuta. C’è chi ritiene che un coach debba esercitare il suo ruolo, usando lo strumento principe delle domande ma, in alcuni casi, può anche portare variazioni sul tema, diventando anche motivatore o, semplicemente, suggeritore del suo coachee, senza che questo inquini il suo ruolo di guida. Ma non è un approccio condiviso da tutti. Come in molte situazioni della vita, esistono i puristi anche nel coaching. E sono coloro i quali si aspettano una conduzione fatta esclusivamente di domande. Qualunque, altra interpretazione del ruolo, infatti, in questa visione assolutista, depotenzierebbe il ruolo di guida e di sollecitazione, per il cochee, ad attingere al meglio delle proprie risorse, per generare i giusti cambiamenti, uscire dalle criticità o raggiungere gli obiettivi che si prefigge e, per i quali, ha chiesto il supporto del coach.

Senza prendere posizione, su quale sia la chiave più giusta per esercitare la professione di coach, rimane l’elemento cardine: la posizione dissociata. Tale posizione, tra i vari vantaggi, ne offre uno imprescindibile: la mancanza di coinvolgimento emotivo del coach.

Dicevamo, infatti, che non è l’unico vantaggio. I vantaggi sono diversi, alcuni li abbiamo già sviscerati, altri li analizzeremo negli articoli successivi. In questo articolo, ci soffermiamo sul vantaggio di non essere coinvolti emotivamente, da parte del coach.

Ci si può aspettare che un imprenditore sia innamorato della propria azienda e del proprio business; magari l’azienda è una sua creatura oppure è l’azienda di famiglia, in cui andava fin da ragazzino a giocare, portato dai genitori; comunque è facile che sia una realtà che senta appartenergli, in maniera intima.

Un manager, nel suo ruolo o, comunque nell’azienda, già da tempo, ha sviluppato, inevitabilmente, un sistema relazionale con le altre persone dell’azienda, siano essi altri manager o collaboratori che rispondono a lui o superiori a cui risponde. Le relazioni, il più delle volte, travalicano l’aspetto puramente lavorativo e tracimano sul personale, sul sociale, danno luogo, non poche volte, ad amicizie (o inimicizie) e anche a situazioni sentimentali.

Stessa cosa si può dire di un professionista, che sia titolare o sia all’interno di uno studio professionale. Il fatto di avere a che fare con colleghi, collaboratori e superiori ha, come portato necessario, anche il coinvolgimento personale, con il suo carico emotivo.

Non poche volte, questo coinvolgimento si sviluppa anche nei confronti dei clienti, soprattutto se si è sviluppata una sorta di fidelizzazione.

E non sono solo le persone a determinare coinvolgimento emotivo. Per esempio, ci si innamora delle proprie scelte. Si immagini un imprenditore o un manager che hanno avuto un’idea e, intorno a questa, ci hanno sviluppato un progetto.

Questo li rende, per forza di cose, il più delle volte, meno lucidi e più soggetti a fare scelte “di pancia”, piuttosto che scelte funzionali al momento e alle reali esigenze.

Questi esempi (ma ne potremmo fare molti altri) potrebbero indurre a pensare che il coinvolgimento emotivo sia uno svantaggio, quando si è a capo di un’azienda o di uno studio professionale o quando si sia all’interno dell’organico, magari con ruoli decisionali, di responsabilità di riferimento per altri. Magari qualcuno starà pensando: “allora, per svolgere al meglio il proprio lavoro, bisognerebbe essere capaci di rimanere distaccati emotivamente, dissociati, sentimentalmente, in una sorta di anaffettività o di impermeabilità emotiva”. Naturalmente, no. Semmai fosse praticabile, questa sorta di astrazione emotiva (e crediamo sinceramente che non lo sia), il vantaggio che ne deriverebbe (la lucidità di essere nelle situazioni, senza la deformazione dei sentimenti, a vario titolo) probabilmente sarebbe infinitamente inferiore, agli svantaggi che tale approccio comporterebbe.

Le imprese, soprattutto le piccole ma anche le medio grandi, e gli studi professionali hanno successo proprio perché sono guidate e dirette da uomini appassionati, innamorati di quello che stanno facendo, coinvolti emotivamente e pronti per le mille battaglie che, quotidianamente, aspettano loro, per portare i risultati. E’ proprio l’imprenditore innamorato della propria azienda, il manager appassionato, il professionista coinvolto che fanno la differenza, quando si ottengono, con continuità, risultati soddisfacenti e anche quando, al contrario, le aziende devono affrontare momenti di crisi, anche gravi e prolungati che, magari, quando si presentano, non lasciano intravedere soluzioni o vie di uscita accettabili. In tutti i casi, è proprio la passione ed il coinvolgimento, che fanno la differenza. Dunque, il vantaggio di essere sempre distaccati emotivamente sarebbe così poco apprezzabile, che non determinerebbe alcuna conseguenza positiva, nel lungo periodo.

Bisognerebbe avere la doppia capacità di capire quando è il momento di staccare il coinvolgimento emotivo e di saperlo attuare, da parte di imprenditori, manager e professionisti. Ma, sinceramente, questa doppia capacità, se mai fosse rintracciabile (e la nostra esperienza ci dice che sono pochissimi coloro che sono in grado di farlo e neanche sempre) non darebbe, comunque, la garanzia di lucidità, nei momenti che servono.

In realtà, che imprenditori, manager e professionisti lavorino sul controllo della propria emotività, magari affidandosi ad esperti, formatori o conunselor, è sicuramente positivo e, in alcuni casi, auspicabile. Saper controllare le emozioni è una dote che da potere, rende più lucidi e libera risorse. Dunque, è un lavoro che sollecitiamo a fare. Ma non fino al punto di arrivare a staccare il proprio coinvolgimento, dal proprio lavoro e dalla propria realtà di appartenenza. Sarebbe come pretendere che un’automobile vada in giro, senza benzina.

E allora, se la strada non è quella di sopprimere i propri impulsi più passionali, la soluzione migliore, per condurre ragionamenti che abbiano la garanzia di una lucidità, scevra dalle emozioni, è quella di farsi guidare da qualcuno che tale coinvolgimento, non lo vive, non ha ragioni per viverlo e, soprattutto, è formato e strutturato per non averlo.

Il coach competente e capace, dunque, guida il proprio cochee, libero da coinvolgimento emotivo e, dunque, si fa carico di attivare il proprio cochee, lasciandogli la facoltà dei propri sentimenti e, aiutandolo, al tempo stesso, a non inquinare, con essi, i ragionamenti che deve fare e le decisioni che deve prendere.

Come direbbe un vecchio telecronista di partite di calcio della nazionale: “tutto molto bello”. Si, tutto questo è fantastico se il coach è egli stesso capace, di rimanere incontaminato.

Se è vero, infatti, che non si chiede all’imprenditore, al manager, al professionista, di liberarsi della propria sfera emotiva (semmai di imparare a gestirla, come abbiamo detto, ma non ai fini del coaching) è altrettanto vero che il coach avrà a che fare con profili di tutti i tipi, umorali, impulsivi, bastardi, deboli emotivamente e tutto quanto lo scenario dell’emotività può offrire, a livello di umanità. E, magari, può anche capitare che questa attività emotiva, venga usata dal coachee per contagiare la guida, coinvolgerlo nelle proprie passioni e, in ultima analisi, togliergli la lucidità.

Questo non deve accadere. Si, perderebbe, infatti, uno dei grandi vantaggi del coaching: quello che prevede che chi guida rimane lucido ed emotivamente non coinvolto.

Dunque, un bravo e professionale business coach è colui il quale, tra le altre cose, rimane del tutto refrattario all’attività emotiva e pulsante del suo cochee. In tal senso, gli si chiede una dissociazione molto vicina a quella che viene chiesto ai medici; un distacco tale da renderlo impermeabile ad ogni istanza o sollecitazione, anche involontaria, messa in atto del cochee, che possano toccare il coach al cuore.

Certo, non si chiede al coach di perdere la propria umanità o di diventare una macchina. Ma di non varcare la soglia del coinvolgimento. Questo è assolutamente imprescindibile.

 

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