Coaching
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Le credenze sono uno degli elementi che rientrano nell’ambito del mindset. In realtà, riguarda l’essere umano, a prescindere da come lo si voglia valutare e con quali strumenti di indagine. Il tema delle credenze o convinzioni, che dir si voglia, riguarda ognuno di noi, in ogni istante della nostra vita. E’ l’asse portante del pensiero speculativo, da quando si ha notizia che l’uomo fosse sulla terra. Fin dagli albori dell’umanità, infatti, l’essere umano, dovendo dare una spiegazione ai fenomeni con i quali si confrontava, non aveva altra soluzione che elaborare ipotesi in cui credere. Curiosamente, la soluzione più semplice è sempre stata quella di dare un senso, a quello a cui non si riusciva a dare spiegazione, ricorrendo alla credenza che esistessero esseri sovrannaturali che organizzassero quello che non era spiegabile, a cominciare dal sole, la luna le stelle e tutti i fenomeni naturali. L’evoluzione umana ha determinato una serie di scoperte che, via via, hanno smantellato le precedenti credenze. Accanto alle credenze più riconducibili al campo delle religioni, sono arrivate quelle che potremmo definire certezze scientifiche. Ma, se analizziamo bene, con cosa sono state sostituite le precedenti credenze? Sembra incredibile a dirsi ma sono state sostituite con altre credenze, anche quelle che si collocano in campo scientifico. Quelli che chiamiamo “dati di fatto”, in realtà, sono solo credenze che, con il tempo, potrebbero confermarsi o essere smentite. Vale in ogni settore, a cominciare da qual mondo, pieno di certezze, che si chiama “scienza”. Sono tantissime le scoperte scientifiche che, con il tempo, si sono rivelate del tutto infondate. Ed il mondo, compreso il mondo della scienza, va avanti così. In base alle credenze. Quella che crediamo esser la realtà, è essa stessa una credenza.
Non è questa la sede, per spiegare questo concetto, nella sua profondità. E’ ampio ed articolato e merita ben altro spazio. In questa sede, è necessario che, chi legge, parta dall’assunto che le cose stanno così. E, pensateci bene, se pensate che, invece, le cose stiano diversamente, ancora una volta state opponendo una vostra credenza, di cui siete assolutamente certi, ad una credenza. Quindi, opponete ad una credenza, una vostra credenza. E non potreste fare diversamente.
In questa sede, non è importante proporre un antico dibattito sulla realtà: esiste quello che percepiamo, fuori di noi oppure è solo una proiezione della nostra mente? Non è questo il tema, che ci aiuta. Limitiamoci a dare per assunto, e a dare per scontato che sia così, che viviamo all’interno di una realtà, esterna a noi, e che le cose che ci capitano sono “reali”. Il punto è che, anche se così stessero le cose, quello che conta, per ognuno, non è quello che accaduto, ma il modo con cui se lo rappresenta. Perché, anche la ricostruzione mentale di una realtà esterna a noi, necessariamente, è parziale e soggettiva. E’ parziale, perché nessuno può cogliere tutti gli aspetti di una certa situazione e, oltretutto, sappiamo che, per quanti aspetti possa cogliere, come abbiamo spiegato nel precedente articolo, potrà porre il suo focus solo su una minima parte dell’esperienza. Soggettiva perché, per quanto si vivano esperienze comuni, ogni individuo ricostruirà, nella propria testa, quanto ha vissuto, in una modalità esclusivamente sua. E stiamo parlando solo del momento in cui una certa esperienza viene vissuta.
Proviamo ad immaginare cosa accade, quando l’esperienza vissuta viene riportata in un racconto, durante una conversazione. A questo punto, la soggettività e la parzialità dominano ai massimi livelli. Il distacco da quella che identifichiamo come realtà è sempre più marcato e, cosa più importante, la gran parte di quello che viene riportato è caratterizzato dalle credenze, di chi sta esponendo. Il che non vuol dire che chi sta raccontando stia esponendo fatti non veri. Semplicemente sta esponendo quanto ha vissuto, rielaborato e cesellato da quello che ha creduto di raccogliere, a livello di input sensoriali, di elaborare a livello mentale e rielaborare, a livello di racconto.
C’è una semplice dimostrazione, di tutto questo. Chiedete a chiunque di raccontare un fatto e di commentarlo. Ad un certo punto del racconto, sarà facilissimo ascoltare frasi del tipo “almeno, questo è quello che io penso” oppure “questo è il mio punto di vista” o similari. Questa è la conferma che ognuno, quando riporta, è inconsciamente consapevole che non sta rendendo una oggettività, nei fatti improponibile, ma una propria versione soggettiva e, ad un certo punto, sente il bisogno di precisarlo.
In una sessione di coaching, le cose non vanno diversamente. Prima di essere coach e coachee, i due soggetti coinvolti sono esseri umani. E, dunque, in quanto tali, non esenti dagli stessi meccanismi di rapporto con l’esistenza.
A quel punto, il compito di un bravo business coach è quello, non di contrastare le credenze, ma di aiutare il cochee a distinguere le credenze dai fatti. Come abbiamo già detto, e vale anche in questo caso, il punto non è se quello che il cochee crede sia vero o falso. Il punto è capire che, per il cochee (come per qualunque altra persona) quello che crede si sovrappone alla realtà, identificandosi con essa. E, dunque, questo non solo comporta un inevitabile impoverimento dell’accadimento, ma comporta anche che il pensiero del cochee, le sue scelte e i suoi comportamenti conseguenti, saranno orientati dalle sue credenze.
E, allora, il coach ha il compito di tenere desta l’attenzione sulle sue credenze. Prima di tutto, ricordandogli che di credenze si tratta (ripetiamo ancora, non ha importanza, se vere o false). E, in secondo luogo, una volta portato il cochee su questo tipo di consapevolezza, aiutarlo a verificare la fondatezza delle sue credenze.
A questo punto, è inutile tornare ancora una volta a porre l’interrogativo: in che modo il coach deve fare questa operazione? Perché la risposta sarebbe retorica: con le giuste domande.
Mai, come in questo caso, possiamo passare direttamente alle domande che, più di tutte, aiutano il cochee a raggiungere la consapevolezza a cui il coach deve guidarlo. Le domande più efficaci sono: “Come lo sai?” e “Chi ti dice che le cose stanno realmente in questo modo?”. A queste domande si possono agganciare tutta un’altra serie di domande di approfondimento.
Ma queste due domande sono le più idonee ad innestare quello che possiamo chiamare “meccanismo di revisione delle credenze”. La credenza è un concetto soggettivo, per tutti gli altri, tranne che per chi la detiene. Per la persona che ha una credenza, per paradosso, essa è un dato di fatto inconfutabile o, quantomeno, inconfutato. E’ una sorta di punto di partenza cristallizzato, da cui partire nei ragionamenti.
Le domande proposte hanno il pregio di andare a rompere questa cristallizzazione e ad innestare, auspicabilmente, il processo di revisione. La persona che deve rispondere a queste domande, infatti, inevitabilmente è costretto a fare il percorso a ritroso e andare a rintracciare quella che viene chiamata “fonte della credenza”. E, dunque, è costretto a chiedersi se quello di cui è fermamente convinto è, per esempio, frutto di sue esperienze personali o di fatti riportati. E, in un caso e nell’altro, se quello che gli viene riportato è confortato da una statistica o si tratta di episodi isolati. E così via.
Ripetiamo ancora. Il compito del coach non è quello di andare a smontare la credenza. Il compito del coach è quello di fare in modo che il cochee prenda coscienza della propria credenza e, eventualmente, avvii un processo di revisione della stessa, soprattutto se non è funzionale o, al contrario, che la rafforzi, se è funzionale. Perché questo è un altro punto fondamentale: se il processo di revisione porta alla revisione della credenza, il cochee non avrà modo di sostituire la credenza smantellata, con la realtà dei fatti ma, semplicemente con un’altra credenza, magari corroborata da elementi prima sconosciuti e, per questo motivo, più solidi, ma sempre una credenza.
Perché di tutto possiamo fare a meno, tranne di credere o non credere in qualcosa.
E, se ci riferiamo all’azione del coach, nei confronti del cochee, una categoria di credenze su cui vale la pena lavorare sono quelle che il cochee ha su sé stesso. Compito del coach sarà quello di aiutare il cochee a difendere e rafforzare le credenze che gli sono funzionali. Quelle è consigliabile non toccarle e, se possibile e se serve, rafforzarle. E, al contrario, è consigliabile lavorare sulle credenze che possono essere limiti o ostacoli all’azione del cochee.
E, dunque, al cochee che espone situazioni per le quali si sente inadeguato o che pensa di non essere in grado di gestire, la domanda “come lo sai” o “chi ti dice che”, posta nel giusto modo, può essere veramente potente, per aiutare il cochee a capire che, probabilmente, gli unici limiti sono nella sua testa e che, se ragiona bene, non sono ostacoli concreti. Certo, come abbiamo detto, aiutano anche domande guida di altro tipo, sul passato, su altre situazioni e su tutto quello che può servire al cochee, a rappresentarsi situazioni in cui i limiti con cui sta combattendo, non si sono manifestati. Ma il punto è innestare il processo di revisione.
Ecco, un bravo business coach, tra le altre cose, fa questo: aiuta il cochee a smantellare le credenze limitanti e a difendere le credenze potenzianti.