La Differenza

Che sia importante “fare squadra” è uno dei concetti, ormai, più ascoltati degli ultimi decenni, naturalmente nel mondo dello sport, ma anche e sempre di più nel mondo aziendale e, ultimamente, anche nella Pubblica Amministrazione e in contesti associativi non finalizzati a scopo di lucro.

Come spesso accade, però, quando si ha a che fare con concetti che sono diventati di uso comune, quasi a livello di slogan, l’utilizzo di questa affermazione rischia di essere un concetto vuoto, nel senso che è riempibile a piacimento, sia da chi lo utilizza, sia da chi lo ascolta.

Diciamo che fa effetto ed è rassicurante perché, indubbiamente, il solo pronunciarlo o sentirlo, evoca l’idea di qualcosa di forte, di compatto, cioè di un’entità, in grado di affrontare sfide ambiziose e conseguire anche la vittoria.

Quello che, tuttavia, è il caso di evidenziare è che, non poche volte, dietro la formula linguistica e anche a fronte della presenza di elementi essenziali, per l’esistenza della squadra, si possa scoprire che parlare di squadra è improprio se non, addirittura, fuori luogo. E, altra annotazione da fare, non poche volte si sente utilizzare la parola “gruppo”, laddove sarebbe, probabilmente, più congruo utilizzare la parola “squadra” e viceversa.

Naturalmente va fatta una premessa di base: ognuno può dare alle parole il significato che vuole. Se si ascolta le persone che parlano di squadra, nei vari contesti oppure nelle interviste, in televisione, ci si accorge che la parola “squadra” viene utilizzata, per esempio, laddove ad alcuni verrebbe istintivo utilizzare altro tipo di concetto; oppure si constata che la parola è usata come sinonimo della parola “gruppo”; non poche volte, le due parole sono reputate intercambiabili e, dunque, utilizzate come indicanti lo stesso concetto, magari all’interno dello stesso ragionamento.

Sul piano linguistico è del tutto legittimo. In effetti, se si consulta un dizionario si può verificare che i significati, che vengono dati alle due parole sono, effettivamente e almeno in parte, sovrapponibili.

E, comunque, che ci si voglia o possa riferire a concetti differenti, va detto che le due parole indicano un qualcosa che almeno un elemento in comune, necessario alla definizione di entrambi, ce l’hanno: la moltitudine di elementi, nello specifico, di persone.

Questo utilizzo intercambiabile si riscontra anche nello sport. Si sente spesso, nelle interviste di allenatori o giocatori o nei commenti dei giornalisti e telecronisti, usare indifferentemente e alternativamente i due concetti, quando ci si riferisce alle dinamiche delle squadre. Quando, cioè, si parla di quello che avviene all’interno di una compagine, non solo in termini tecnici, ma anche in termini di gestione dei momenti, di gestione degli stati d’animo e di tutto quello che interferisce o alimenta il rendimento e che ha una forma, per così dire, intangibile.

A giudizio di chi scrive, se è vero che non si possa muovere alcun rilievo, in punto di utilizzo linguistico, sarebbe di aiuto, soprattutto in contesti aziendali e sportivi, fare una distinzione definita dei due concetti, in modo che, quando vengono utilizzati, sia chiaro a tutti che si utilizzi ognuna delle due parole, per riferirsi a concetti distinti.

Aiuta, probabilmente, a fare distinzione, anche se il suggerimento non è sufficiente a delinearne i contorni, in quanto è necessario che concorrano altri elementi, una definizione di squadra che da l’idea che essa esiste quando ha un qualcosa in più.

La definizione è la seguente: “In una squadra che funziona, il risultato che si ottiene, in termini di misurabilità, è superiore alla somma degli apporti individuali, dei singoli componenti”.

Questa definizione aiuta molto, soprattutto se ci si sofferma sui singoli pezzi.

Intanto si parla di “risultato”. Questo è un elemento che, probabilmente, agevola molto nell’individuare il concetto di squadra, distinguendolo dal concetto di gruppo. Si sta in squadra, per ottenere un risultato. Mentre un gruppo è tale, a prescindere dal risultato che si possa raggiungere insieme e anche in assenza di un risultato da raggiungere, ha poco senso parlare di squadra, in assenza di questo elemento.

Poi, chiaramente, anche la parola “risultato” non sfugge alle regole linguistiche di qualunque parola. E’ una parola che cambia di significato, a seconda del contesto al quale ci si riferisce ed anche al momento che si sta prendendo in considerazione. Per esempio, nell’ambito sportivo, il risultato è quello che si consegue al termine di una partita; ma è anche quello che si consegue, al termine di un campionato o di un torneo. Stessa cosa vale per il contesto aziendale. Oltretutto, la parola risultato è, essa stessa, intercambiabile con le parole “obiettivo” o “scopo”.

E, inoltre, il concetto stesso di risultato o di obiettivo o di scopo necessità di un’ulteriore specifica, nel momento in cui ci si riferisce ai concetti di squadra ed anche di gruppo.

Infatti, in linea del tutto di principio, in un cinema, durante la proiezione di un film, sono presenti un gruppo di persone. Credo che a nessuno possa venire in mente l’idea di definire “squadra” quel gruppo di persone. In fondo è molto probabile che non si conoscano tutte, tra loro, non hanno deciso di andare a cinema, di comune accordo e, probabilmente, l’interazione, nel tempo che trascorreranno nel cinema, sarà minima, se non nulla.

Eppure, hanno un qualcosa in comune: lo scopo. Cioè, tutti gli appartenenti al gruppo, in linea di principio, sono andati a cinema per vedere la proiezione del film. Dunque, siccome l’esempio ci porta a dire che siamo in presenza di un gruppo di persone che ha uno “scopo comune”, la conseguenza necessaria di questa considerazione è che, affinché si possa parlare di squadra, bisogna elaborare un concetto più specifico: non basta parlare di “scopo comune” ma sarà opportuno parlare di “scopo condiviso”, nel momento in cui ci si riferisce alla squadra.

Allora, affinché ci sia una squadra è necessario che ci sia uno scopo condiviso individuabile, di volta in volta, tramite la definizione del risultato che si vuole raggiungere.

E, per inciso, lo scopo condiviso non preclude l’ipotesi che ogni componente della squadra, nel perseguire detto scopo, non persegua anche uno scopo individuale. Per esempio, il centravanti di una squadra di calcio persegue lo scopo individuale di vincere la classifica dei marcatori; per vincerla, deve fare tanti gol; facendo tanti gol, dà il suo contributo al raggiungimento del risultato, scopo condiviso. Non tratteremo questo argomento, in questo articolo, ma vale la pena semplicemente accennare al fatto che si possono verificare situazioni in cui il perseguimento di uno scopo individuale, di uno dei componenti della squadra, possa penalizzare o essere incompatibile con il raggiungimento dello scopo condiviso. Sempre restando all’esempio, è il caso del centravanti che, per raggiungere il suo scopo individuale, a tutti i costi, gioca in maniera troppo egoistica, cerca di tirare in porta da tutte le posizioni, anche dalle più improbabili e anche quando, piuttosto che tirare, farebbe meglio a passare la palla al compagno meglio piazzato e, dunque, che ha più probabilità di fare gol.

Altro concetto che emerge, dalla definizione da cui siamo partiti è il fatto che, se l’apporto dei singoli componenti del gruppo non è una somma matematica, vuol dire che la squadra genera un risultato che possiamo dire essere un qualcosa a sé. Una metafora che aiuta a capire il concetto è quella dell’essere umano, in quanto tale: esso è fatto di muscoli, tendini, tessuti, apparati circolatorio, respiratorio, digerente; insomma è fatto da tante parti che danno, ognuna un contributo all’esistenza. Eppure, l’essere umano, in quanto essere vivente è un qualcosa in più, un’entità unica che non è riconducibile solo alla somma delle sue singole componenti, ma va considerata come un’entità unica e superiore.

Se il concetto arriva, questa è un potente decodificatore, per distinguere la squadra, in quanto tale, dal semplice gruppo. Il gruppo può essere considerato come la somma dei singoli appartenenti; la squadra, invece, è qualcosa di più.

O qualcosa di meno.

Che non è una contraddizione, ma se ci pensiamo è il completamento logico della definizione dalla quale siamo partiti.

Infatti, la definizione dice testualmente “in una squadra che funziona …”; l’affermazione contiene un forte presupposto. E il presupposto prende in considerazione la squadra, rispetto al risultato, in una sua dimensione particolare: quella in cui funziona.

Perché, nell’estensione del ragionamento, possiamo facilmente constatare, sempre guardando allo sport o anche agli altri contesti, in cui diamo per assunto che ci siano squadre, che una squadra che non funziona è capace di fare una sorta di impresa al contrario: produrre un risultato che, misurato, risulta essere inferiore alla somma degli apporti dei singoli componenti.

Se così non fosse, negli sport vincerebbero sempre le squadre più forti, cioè quelle costruite con i giocatori più forti e più quotati. E, invece, così non è. Succede spesso. Ma non sempre. Perché succede anche che una squadra, apparentemente non quotata, riesca a portare a casa risultati clamorosi, a discapito di squadre molto più forti, sulla carta, così come succede che squadre, sulla carta, fortissime e favorite, non riescano a portare a casa il risultato.

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La Nazionale Brasiliana

Per chi è appassionato di calcio, un esempio di questo tipo è la nazionale del Brasile. Storicamente è quella che, quando iniziano i mondiali, è stata quasi sempre considerata la più forte e la favorita.

Ma non è andata sempre così.

Anzi, più volte, da favorita, è stata eliminata, prima di andare in finale e vincere il trofeo. Lo ricordiamo bene, noi che abbiamo una certa era, proprio quando l’Italia, nel 1982, ai mondiali di Spagna, eliminò i Brasiliani in una partita epica di un pomeriggio storico (e, per inciso, andò a vincere il suo terzo, allora, mondiale).

Quel Brasile era favoritissimo; molti lo davano già campione, fino a quel pomeriggio, non aveva dato alcun segnale, che facesse pensare che potesse essere eliminato; tanto meno da una Nazionale, non quotata, come era quella Italiana, fino a quel pomeriggio.

Eppure, successe.

E successe anche dopo, nel 2006, quando fu eliminata dalla Francia, ai quarti di finale, nel 2018, quando la stessa sorte le tocco con l’Olanda e, infine, anche nell’ultimo Mondiale del Qatar, quando è stata sorprendentemente eliminata dalla Croazia.

Ed è successo anche in altre occasioni.

In tutti i casi che abbiamo citato, la nazionale brasiliana era favorita, per la vittoria finale. Lo era, in quanto leggendo i nomi dei suoi componenti, quello che emergeva era un insieme di giocatori di livello stratosferico, tra i più forti del mondo, ognuno nel suo ruolo. Possiamo dire che, quello che è mancato a quei giocatori fortissimi, è stato proprio quello di “essere una squadra” fino in fondo, di fondere e trasformare, cioè, i loro singoli apporti individuali, in quel qualcosa in più, che ci fa la differenza, tra una vera squadra e un semplice gruppo.

E, al contrario, possiamo dire che è quello che è successo, alle varie compagini che hanno eliminato il Brasile. Meno forti, sulla carta, i loro singoli giocatori hanno saputo generare quella particolare alchimia, da farli diventare “vera squadra” e produrre risultati, superiori ai loro singoli apporti individuali.

Dunque, non facciamone una questione ideologica. Ma distinguere i concetti di gruppo e squadra è utile. E lo è, soprattutto, quando vogliamo che un insieme di persone, stiano insieme per raggiungere obiettivi sfidanti. Ebbene, in quel caso, ci piace pensare che non stiamo parlando di semplice gruppo, ma di vera e propria squadra.

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